Quando l’etica del mangiare diventa l’etica dei ricchi
“Mangiare la metà, pagando il doppio”
Tra caldi insopportabili, vacanze (più o meno) di massa e città svuotate, l’estate 2024 è stata (dopotutto, come tutte le estati) sì l’estate delle hit, delle spiagge, delle serate interminabili, del gioco, del divertimento, ma anche l’estate in cui si è consumata una tragedia che ha dell’incredibile e che (speriamo) abbia sconvolto tutti. Ci riferiamo alla morte di Satnam Singh, bracciante indiano, trentunenne, uno dei tanti invisibili delle campagne italiane. Lavorava da alcuni anni, senza un regolare contratto, presso un’azienda agricola dell’Agro Pontino, in provincia di Latina. Era uno dei tantissimi, delle migliaia, di braccianti stranieri che lavorano ore e ore nei campi, senza tutele, per paghe miserabili (parliamo di pochi euro all’ora). Chiamasi caporalato. Pratica che rimanda a tempi antichi, pre-industriali, che però rappresenta una pratica ampiamente diffusa nelle nostre campagne, nei nostri Paesi industriali e industrializzati. Anzi, è una delle assi su cui si fonda il nostro sistema-agroalimentare (in particolare, quello a basso costo… avete presente il barattolo di passata di pomodoro scontato a 70 centesimi che trovate nei supermercati?).
“Il Post” ha parlato del fenomeno in un interessante articolo, in cui documenta le giornate di lavoro dei braccianti indiani a Latina: https://www.ilpost.it/2024/06/30/sindacato-braccianti-agro-pontino-latina/ . Sono giornate che iniziano alle 4:30 di mattina e a volte finiscono dopo 12/14 ore di lavoro, spesso senza vere interruzioni. Sono giornate di caldi torrenziali, di 40 gradi all’ombra. Sono giornate in cui la dignità umana non ha alcuno spazio. L’atroce morte di Satnam Singh lo dimostra. Un macchinario di lavoro gli ha tranciato un braccio e rotto le gambe. Il proprietario dell’azienda, il suo datore di lavoro, non lo ha portato in ospedale (il giovane non aveva un contratto regolare), ma lo ha semplicemente lasciato davanti casa, con la moglie di Satnam Singh. E con il suo braccio mozzato in una cassetta della frutta.
È una vicenda che si fa fatica anche a immaginare. Non è stata una tragedia. Tragico è l’incidente, tragico è l’errore umano. Il contesto, invece, non è tragico: è un sistema coerente e organizzato (e in quanto tale consapevole) di pura violenza. Un sistema che passa per la profonda e totale disumanizzazione dell’Altro, finalizzato al raggiungimento di un preciso obiettivo: il profitto. Un sistema che non ha nulla di nascosto, di segreto. È noto a tutti, presenti nel territorio e non solo. Un sistema che agisce alla luce del sole. Alla luce di un sole cocente.
“Il Manifesto” scriveva già nel 2014 del fenomeno, focalizzandosi sul fatto che i lavoratori venissero “dopati” per lavorare di più: “Come far fronte a tutto ciò? Racconta B. Singh in un italiano stentato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a raccogliere zucchine e cocomeri o con il trattore a piantare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la domenica. Non credo sia giusto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Perché gli italiani non lavorano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chimiche. Ho sempre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sempre, anche la domenica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la faccio più. Per questo assumo una piccola sostanza per non sentire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sentire la fatica, altrimenti per me sarebbe impossibile lavorare così tanto in campagna. Capisci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani»”
Il sociologo Marco Omizzolo, professore della Sapienza di Roma, si occupa del fenomeno da anni, scrivendo articoli, libri e collaborando con associazioni. Da otto anni vive sotto vigilanza. Ha evidenziato, come scrivevamo prima, il carattere sistemico del caporalato dell’Agro Pontino, che assume spesso i tratti di una vera e propria organizzazione mafiosa, talvolta armata, talvolta politicizzata. I “caporali” dell’Agro Pontino obbligano i loro sottoposti ad abbassare il capo e a fare il saluto romano davanti all’immagine di Mussolini, minacciati con pistole e fucili. “Bisogna insegnare loro che in Italia comandano gli italiani e che il fascismo è la fede politica dei padroni”, emerge in una recente inchiesta: https://www.editorialedomani.it/politica/italia/latina-fascismo-agrario-braccianti-obbligati-saluto-romano-busto-mussolini-armi-minacce-caporalato-qr7wvo38
Potremmo riempire pagine e pagine nel raccontare questo sistema. Emerge, però, un dato chiaro, tanto semplice quanto potente: si tratta di un sistema di pura violenza e malvagità. La domanda allora è: qual è il costo di questa violenza? A che cosa porta tutta questa disumanizzazione? Qual è l’esito del più totale e sconvolgente sfruttamento? I pomodori a 70 centesimi. O almeno così hanno risposto in molti. Dopo la morte di Satnam Singh, si sono moltiplicati i dibattiti (che già sono scomparsi, ahimè…) e molte persone hanno sostenuto che il caporalato e la sua violenza non fossero altro che il costo che dobbiamo pagare per poter comprare i prodotti alimentari al supermercato a basso prezzo. Dunque, è ritornato in auge il mantra, coniato dal noto imprenditore Oscar Farinetti: Mangiare la metà, pagando il doppio.
La questione è stata riportata anche dal celebre giornalista e scrittore Michele Serra nella sua newsletter “Ok, boomer” (edita da Il Post), suscitando non pochi clamori. Pubblichiamo l’intero testo delle sue osservazioni:
“<< Finché la passata di pomodoro sarà messa in vendita a 70 centesimi al barattolo, il caporalato esisterà sempre e il lavoro agricolo sarà sempre sottopagato. Bisogna mangiare la metà, pagando il doppio>>. Se nella tastiera del mio computer, oltre alla sottolineatura, ci fossero un sottofondo musicale e un richiamo luminoso per segnalare l’importanza di una frase, li avrei adoperati. Bisogna mangiare la metà pagando il doppio. La sintesi di Oscar Farinetti – qualunque cosa voi pensiate di Oscar Farinetti – è un poco stentorea, ma impeccabile. Spiega strutturalmente (non emotivamente) perché le condizioni di lavoro nelle campagne ci appaiono spesso primitive e indecenti. Spiega perché il bracciante indiano Satnam Singh, sottopagato come tanti, sia stato abbandonato come una carriola rotta dai suoi ignobili datori di lavoro, nemmeno una corsa in ospedale per cercare di ricucirlo e salvarlo, la stessa sottrazione di dignità umana che lo accompagnava nei campi lo ha accompagnato nell’agonia e nella morte. Nel linguaggio dei media quelli come lui si chiamano “gli invisibili”, ma l’invisibilità è la condizione della filiera del cibo quasi per intero. Solo il suo ultimo tratto – la vendita al dettaglio, la vetrina finale – è per definizione esposto, brillante di colori e di profumi, da qualche anno corredato (ed è già qualcosa) da etichette che indicano la provenienza, la scadenza, gli eventuali allergeni, a volte alcuni dei componenti. Il resto è rimosso, occulto, sconosciuto. I nostri avi, tra tanti evidenti svantaggi e afflizioni, conoscevano però quello che mangiavano: o perché lo producevano direttamente, o perché lo acquistavano a poca distanza da casa, quasi sempre da produttori noti. Conoscevano il cibo come se fosse parte della famiglia e del territorio. Ovvio (tanto ovvio che non so nemmeno se valga la pena scriverlo) che il mercato diffuso, la grande distribuzione, la globalizzazione di tutte le merci compresi i cibi, hanno avuto i loro grandi vantaggi. La rivoluzione agricola ha moltiplicato le quantità; la grande distribuzione ha favorito l’accesso di tutti, o quasi tutti, a una enorme varietà di prodotti, contaminando e arricchendo le culture alimentari locali. Ma la quantità non è la qualità – almeno questo, della società di massa, avremmo dovuto capirlo, e farne un elemento basilare di ogni possibile analisi del nostro modo di vivere. Montagne di cibo mediocre riempiono i carrelli dei frettolosi (ovvero di noi tutti). Non esiste etichetta che riporti il salario orario di chi ha curato o raccolto quel cibo. Abbiamo imparato a fare un poco più di attenzione ai possibili veleni, additivi a rischio, coloranti non richiesti, possiamo orientarci tra bio e non bio, ma dei costi sociali di quello che mangiamo siamo completamente all’oscuro. Se poi qualcosa costa poco, tendiamo a comperarne molta, di quella cosa. A farne provvista come se alla guida del nostro carrello ci fosse ancora e sempre la fame ancestrale. È il contrario esatto dell’esortazione di Farinetti: mangiamo il doppio pagandolo la metà. In tutto l’Occidente l’obesità è piaga dei poveri. La proverbiale vicenda dell’“orto alla Casa Bianca” voluto da quella santa donna di Michelle Obama, e ovviamente subito espiantato dal nuovo inquilino, il bruto Trump, non ha niente di aneddotico, di pittoresco, di divertente: è politica allo stato puro. Ed è politica popolare, gesto simbolico per richiamare “il popolo”, tanto caro ai demagoghi miliardari come Trump, alla qualità del cibo, a ridiventare padrone del proprio metabolismo, una specie di “io sono mio” che parte dalla conoscenza di quello che ci si mette in bocca e in pancia. La filiera del cibo, per quanto possibile, andrebbe considerata tutta assieme, dal campo fino al piatto. I pionieri come Carlo Petrini e Slow Food, che quella filiera hanno cercato, negli ultimi quarant’anni, di portarla “in chiaro”, sono attivisti politici che la superficialità mediatica ha trasformato in ghiottoni gaudenti, con la fissazione del cardo gobbo e del lardo di Colonnata. Si sono occupati, eccome, anche della passata di pomodoro, anche di Satnam Singh, e da decenni convocano, a Torino, forse il più grande raduno mondiale di contadini, Terra Madre. Ma Carlo Petrini, mio amico di una vita, mi ha sempre raccontato che i leader della sinistra gli telefonavano solo per chiedergli dove si mangia meglio, in giro per ristoranti e trattorie d’Italia. Carlo, troppo gentile, li rimandava sempre alla guida Slow Food. Avrebbe dovuto dire loro: “Quando hai finito, dopo il caffè, magari richiamami che ci diciamo due o tre cose sul lavoro nei campi”. “Compagni dai campi e dalle officine!”, si cantava in un tempo remoto. Un canto del Novecento che suona come un canto dell’Ottocento. In tempi recenti ci si sta accorgendo che non solo esistono ancora le officine. Esistono anche i campi”.
La mail è interessante e soprattutto ben scritta, in pieno stile Michele Serra. Espone indubbiamente dei punti-chiavi, centrali nel dibattito, e ha il merito di mettere al centro della critica non solo la vicenda umana (anzi, disumana) terribile, ma anche tutti i contorni socio-economici e sistemici, allargando il campo. Insomma, il problema non è l’individuo, non sono nemmeno gli individui o i gruppi: il problema è il sistema. Di cui anche noi siamo responsabili. Analisi condivisibile. La soluzione un po’ meno? Viene citato il Padre di Eataly Oscar Farinetti e la sua idea (classista!?) di mangiare meno pagando di più. La qualità viene messa in contrapposizione con la quantità, come se fossero due concetti imprescindibilmente scissi, senza alcuna possibilità di integrazione. La risposta è in qualche modo esclusivamente individuale: siamo noi singoli, che con le nostre singole scelte, possiamo trovare un’alternativa. Se il problema è sociale e sistemico, la risposta, la soluzione, viene concepita come individuale e personale. E quindi inevitabilmente il singolo che ha più risorse, più strumenti, è in grado di rispondere meglio. Ne risulta, probabilmente, un quadro un po’ elitario, in cui si può mangiare bene solo se si può spendere, solo se si hanno le capacità e il bagaglio culturale per comprendere e capire (e anche tanto tanto tempo libero… quanti di voi possono permettersi di andare al mercato o chissà dove per andare direttamente dal produttore?). Non è in caso che, in seguito a questa mail, sono state avanzate diverse critiche, pubblicate nella puntata successiva della newsletter. Alcune sono molto interessanti (forse anche di più della mail-origine), ricche di critiche costruttive, soluzioni alternative, spunti densi di significati. Ne ricondividiamo alcune:
“Ho 26 anni e sono cresciuta in Sicilia. Io ci penso da giorni, alla storia di Satnam Singh, penso che è una responsabilità di tutti e tutte noi; leggo analisi tipo ‘se su questa bottiglia di salsa di pomodoro ci fosse scritto che è frutto dello sfruttamento di lavoratori e lavoratrici che guadagnano 3€ l'ora, la compreresti?’ La risposta immediata è: certo che no. Poi rifletto un attimo e mi viene da chiedermi ‘e allora cosa comprerei’? Cosa potrei permettermi di comprare vivendo a Milano, al momento da disoccupata e prima con uno stipendio netto da 1500€ al mese che spendevo per oltre un terzo in affitto? Ci ho provato a comprare prodotti dei presidi slow food, a km zero, frutto di filiere controllate, però, onestamente, non ci stavo dentro con i costi. Certo che a fare questo discorso provo vergogna, perché penso che potrei sforzarmi di trovare altre soluzioni, potrei fare un bel po' di rinunce per fare una spesa che almeno in parte non sia il risultato dello sfruttamento. Certo che sono in una posizione privilegiata, bianca, italiana, figlia di una famiglia dal reddito medio-alto, consapevole che molto difficilmente dovrò fare per vivere un lavoro logorante, da 14 ore al giorno, pagato 3€ l'ora. Ma non penso che il costo di questa consapevolezza dovrebbe ricadere principalmente sulla consumatrice finale. Che magari, sebbene su un altro ordine di grandezza e per altri versi, è vittima anche lei di un sistema Paese che si è dimenticato da un pezzo (o forse non l'ha mai saputo) cosa significa dare dignità al lavoro”. (Chiara)
“Scusa la franchezza ma ‘bisogna mangiare la metà, pagando il doppio’ è la solita scusa che sento ripetere in continuazione per creare confusione e sviare l'attenzione. Una frase che dipinge le povere aziende agricole costrette a spremere ogni centesimo (pesantemente sussidiato) per poter sopravvivere in questo povero mondo. Vengo dalla zona in questione e, come tanti da queste parti, conosco tante aziende sfruttatrici e anche le poche – eroiche – aziende che pagano stipendi dignitosi ai loro braccianti, e a volte offrono loro anche alloggi altrettanto dignitosi. La differenza non è nel prezzo a cui vendono la merce al mercato di Formia. La differenza è che il proprietario dell'azienda virtuosa si muove in Panda invece che in BMW e Mercedes, e investe i profitti nella sua azienda e nei suoi lavoratori invece che nel comprare appartamenti per figli e per investimento. Prima di mangiare la metà e pagare il doppio, cominciamo a risolvere il problema. Poi vediamo se sarà necessario (come non credo) pagare il doppio." (Denis)
“Non ho dubbi che se la passata di pomodoro continuerà a essere venduta a 70 centesimi al barattolo il caporalato continuerà a esistere. Ho parecchi più dubbi sul fatto che pagando il doppio i braccianti che raccolgono la frutta e la verdura che mangiamo (e gettiamo in quantità) questi vengano davvero più correttamente retribuiti. Le notizie che vengono dalla filiera della moda - dove certo il problema non è quello di tenere i prezzi al minimo livello - fanno pensare a un altro esito”. (Sergio)
“Mi farebbe felice una filiera che fosse certificata ‘cruelty free’, magari localizzata (km zero o comunque regionale), ma che non sia necessariamente attaccata all'etichetta biologico. Tutti quelli che parlano di filiera corta sono subito e indistintamente biologici, biodinamici, no scie chimiche, raccolgono solo nei giorni dispari… Insomma, c'è stato un effetto del mercato per cui i prodotti o hanno tutte queste qualità o non ne hanno nessuna. E quindi o si compra il pomodoro del caporalato oppure si compra il pomodoro perfetto da Eataly, che guarda caso costa 10€/kg. Credo di non essere l'unico a richiedere una via di mezzo, ma soprattutto a richiedere uno standard, un bollino, un qualcosa anche a livello ministeriale che possa aiutare i consumatori a fare una scelta più informata, e che non sia così stringente da diventare una scelta solo per i più ricchi”.(Marcello)
“Personalmente mi farebbe solo bene mangiare la metà. Ho solo una perplessità sulla seconda parte della raccomandazione: sono quasi certo che se pagassimo il doppio produrremmo una plusvalenza (plusvalore, avrebbe detto Carletto) che finirebbe nelle tasche dei soliti noti. Perché sta continuando a divaricarsi la forbice tra le classi abbienti e i diseredati, vanificando un paio di secoli di lotte, contestazioni, rivendicazioni e conquiste. I ricchi, i padroni, sempre più ricchi e i poveri, i proletari, sempre più poveri (scusa se insisto con questa nomenclatura demodé). Alla fine mi pare che il periclitante benessere del mondo occidentale continui a poggiarsi, oltre che sul consumo dissennato e devastante delle risorse naturali, sull'eterno sfruttamento dell'uomo sull'uomo, su uno schiavismo abolito sulla carta ma, nei fatti, ancora biecamente praticato” (Alessandro)
“Vengo da antenati coltivatori diretti, poi muratori, un’origine comune a tanti. Fisicamente non riesco a staccarmi dalla terra, che curo in prima persona fin dove posso, affittandola a persone serie per il resto. In giro pullula quello che io, ben prima dell’invenzione del termine radical-chic, definivo fighettismo di sinistra. Non è detto che un prodotto che costa poco sia necessariamente cattivo né che uno caro sia necessariamente buono. La grande distribuzione, per cui ho lavorato per più di quasi 40 anni, effettua anche vendite sottocosto. E il giochino ‘costa caro quindi è buono ed etico’ ha fatto il suo tempo. Bisogna ricominciare anzitutto a consumare prodotti di stagione. E sapere di cosa si sta parlando. Si dedica troppo tempo a questioni secondarie e fumose. Ognuno davanti al suo tablet. Ed ecco riapparire i braccianti. Ah, servono ancora? La campagna non è un agriturismo in Toscana il fine settimana. Il sudore è importante. Sudiamo un po’ di più. Così oltre a diminuire l’apporto calorico aumentiamo il dispendio energetico individuale”. (Graziano)
“L’idea del povero contadino costretto a sfruttare i braccianti per colpa della grande distribuzione brutta e cattiva è una sentenza frettolosa che ignora una realtà molto più complessa. Sostenere che prezzi più alti ai produttori significherebbero stipendi e condizioni migliori per i lavoratori significa ignorare l’esistenza della storia dei latifondi, dello sfruttamento dei contadini da parte dei grandi proprietari terrieri, della storia dell’agricoltura stessa. È come dire che se nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti i proprietari terrieri avessero avuto un compenso da loro ritenuto equo, gli schiavi avrebbero ottenuto la libertà e un bel paio di pantaloni nuovi come bonus. La realtà è che esistono territori in cui lo Stato non si azzarda ad entrare, per paura, ma molto più spesso per interesse. Creiamo un ispettorato del lavoro europeo, che verifichi le condizioni dei lavoratori agricoli in Spagna, Grecia e Italia. Incentiviamo l’accorpamento delle aziende, capaci di meccanizzare i processi produttivi di prodotti di cui, con buona pace sua e di Farinetti, c’è e ci sarà molta domanda. La grande distribuzione organizzata, così come la globalizzazione, hanno tanti difetti, ma una persona intelligente come lei non può ignorarne i benefici. Provi ad andare col ditino alzato da una famiglia monoreddito con figli di una grande città rimproverando il mancato acquisto del pomodoro ramato di Roccacannuccia a 15 euro in confezione da 100 grammi, invece della passata da 500 grammi in promozione a 90 centesimi, che magari è fatta con pomodori olandesi raccolti meccanicamente da iper-aziende con complesse economie di scala. Non mi faccia il Lollobrigida, per favore”. (Gianni)
Al di là di come la si pensi, sono mail molto belle e cariche di contenuti e opinioni ben sostenute, spesso scritte da persone giovani, che si confrontano con un mondo nuovo e complesso, cercando di comprenderlo con giusta precisione e accuratezza. Non mancano chiaramente punti controversi, a volte contraddittori, non condivisibili (ci mancherebbe altro), ma emergono questioni e tematiche di grande rilevanza, che non possono non essere considerate per affrontare in maniera adeguatamente complessa il problema adeguatamente complesso. Cerchiamo di elencare tramite dei brevi punti delle questioni che emergono nelle mail e che possono essere a nostro parere utili per “mettere a fuoco”:
L’azione, prima che individuale, deve essere innanzitutto e soprattutto politica (vedi ad esempio gli ispettorati del lavoro, dei bollini che segnalano le realtà virtuose, le sanzioni, gli incentivi…)
Pagare il doppio non significa necessariamente retribuire il doppio, ma è una questione di distribuzione (come fa notare Carlo, c’è il rischio concreto che la plusvalenza vada nelle tasche dei soliti noti)
Non cadere nel “gastro-fighettismo” e nella retorica radical-chic (le campagne non sono l’agriturismo in Toscana; il lavoro è sudore; il bio non deve essere una religione e/o uno slogan)
La possibilità e l’esigenza di una via di mezzo (come scrive perfettamente Marcello: “Tutti quelli che parlano di filiera corta sono subito e indistintamente biologici, biodinamici, no scie chimiche, raccolgono solo nei giorni dispari… Insomma, c'è stato un effetto del mercato per cui i prodotti o hanno tutte queste qualità o non ne hanno nessuna. E quindi o si compra il pomodoro del caporalato oppure si compra il pomodoro perfetto da Eataly, che guarda caso costa 10€/kg”)
Ebbene sì, siamo anche noi delle vittime (come emerge dalla prima mail, quella di Chiara, che, sebbene riconosca di essere a modo suo una privilegiata, evidenzia l’insostenibilità di un sistema che costringe a lavorare di più per poter mangiare bene)
Mai dimenticarsi degli ultimi, degli “invisibili” e delle differenze socio-economiche (a fianco di chi raccoglie i pomodori per 3 euro all’ora, c’è chi non riesce ad arrivare a fine mese perché ha un lavoro precario e compra il prodotto più economico possibile al supermercato o che addirittura ci lavora in quel supermercato, per 6 euro all’ora)
Ce ne sarebbero tantissime altre di cose da dire e da argomentare. Tuttavia, visto che il testo è già bello lungo, vi lasciamo con questi ultimi punti, con questi ultimi spunti. A maggior ragione, questa volta sono necessarie le vostre opinioni e considerazioni per aggiungere “pezzi” al dibattito. Rispondete alla mail per farci sapere che ne pensate. Ritorneremo sicuramente sugli argomenti. A presto!
Stay hungry, stay carbonari… and stay human!
Questa settimana vi proponiamo uno dei nostri eventi: un San Carbonaro a tema sushi presso “Rollami” a Monterotondo, il 7 novembre sia a pranzo che a cena. Sarà un evento fusion, una novità anche per noi, che speriamo possa piacervi! Trovate tutte le info nella locandina (vi ricordiamo che è obbligatorio prenotare e potete farlo ai recapiti riportati nella stessa).
Vi aspettiamo numerosi!
Non ho molto da aggiungere, i commenti a Serra evidenziano in effetti un tema molto complesso. Ma vi ringrazio per il riassunto.